Le misure di contenimento che sono state progressivamente imposte in molti paesi dai primi mesi del 2019, conseguenti alla pandemia da coronavirus SARS-CoV-2 nota come COVID-19, hanno portato alla ribalta un tema da sempre molto delicato e cioè quali siano i presupposti perché sia invocabile la causa di forza maggiore negli scambi internazionali. Uno dei principi esistenti in tutti gli ordinamenti è che il debitore debba eseguire esattamente la prestazione cui si è obbligato, ad esempio, stipulando un contratto. All’esatta esecuzione della prestazione consegue la liberazione del debitore. Tralasciando i criteri di valutazione perché la prestazione dedotta nel contratto possa dirsi esattamente adempiuta, in questa sede interessa individuare quale sia la soglia che consente al debitore di andare esente da ogni responsabilità, considerando che l’inadempimento o l’inesatto adempimento comporta, in linea di massima, il risarcimento del danno nelle sue forme di «danno emergente» e di «lucro cessante» (artt. 1218 e 1223 c.c.). Questa soglia è individuabile nella c.d. impossibilità sopravvenuta, totale, parziale o anche solo temporanea.

L’impossibilità, che deve dipendere da una causa non imputabile al debitore su cui ricade anche l’onere di dimostrarne la sussistenza dei presupposti, produce l’effetto di estinguere l’obbligazione e quindi di liberare il debitore da ogni di responsabilità nei confronti del creditore. Inoltre, nel nostro ordinamento, l’impossibilità sopravvenuta può essere invocata per ottenere la risoluzione dei contratti «a prestazioni corrispettive», tra cui rientrano i contratti di compravendita (art. 1463 c.c.). Il discrimine tra imputabilità e non imputabilità della causa che ha dato origine all’inadempimento viene comunemente indicato nell’evento imprevedibile, inevitabile, insuperabile, descritto tradizionalmente come caso fortuito o causa di forza maggiore.

Il d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, conv. in legge 5 marzo 2020, n. 13, prevede all’art. 3, comma 6-bis inserito con d.l. 17 marzo 2020, n. 18 e rettificato dall’art. 1 della legge di conversione di quest’ultimo, 24 aprile 2020, n. 27, che «[i]l rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti». La domanda, dunque, è in che termini le misure di contenimento disposte dall’autorità in seguito al manifestarsi della pandemia Covid-19 possano essere valutate come causa di forza maggiore, tale da giustificare l’impossibilità dell’adempimento (o dell’esatto adempimento) del contratto e quindi tali da esimere il debitore da ogni responsabilità.

In realtà, la previsione ex art. 6-bis cit. non introduce nulla di nuovo nell’ordinamento, ma si limita a ribadire un principio generale: il ricorrere della pandemia non costituisce automaticamente causa di forza maggiore; ricorrendo la pandemia, si può invocare la causa di forza maggiore per andare esenti da responsabilità solo se ricorrano in fatto determinate condizioni, di cui si dovrà dare la prova e che saranno valutate dal giudice. Si tratta di un profilo determinante soprattutto nell’ambito degli scambi internazionali, poiché la causa di forza maggiore non è regolata nello stesso modo in tutti gli ordinamenti; vi sono importanti differenze, ad esempio, tra gli ordinamenti di civil law, come quelli italiano o francese che sostanzialmente la prevedono, ed i paesi di common law, come quelli anglosassoni, dove invece non è disciplinata.

Per capire se ed in che misura sia possibile invocare la causa di forza maggiore per giustificare l’inadempimento in un contratto di vendita internazionale è in primo luogo necessario aver ben chiaro il quadro degli strumenti che si hanno a disposizione. Occorre innanzitutto verificare se nel contratto siano state inserite clausole che facciano espresso riferimento alla forza maggiore e verificarne l’adeguatezza del contenuto. Se le clausole non sono presenti, occorre verificare quale sia la legge applicabile al contratto con l’avvertenza che, per i paesi che hanno ratificato la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale dei beni mobili e nel caso in cui questa risulti applicabile, l’art. 79 della convenzione indica i parametri per valutare quando ricorrano i presupposti per potersi avvalere dell’esimente della forza maggiore.

Secondo quanto previsto dalla Convenzione di Vienna, si può andare esenti da responsabilità quando l’inadempimento è dovuto ad un evento sottratto al controllo della parte che lo invoca e da essa ragionevolmente imprevedibile al momento della stipula del contratto, inevitabile e insuperabile. È pacifico, inoltre, che l’evento, per essere rilevante ai fini della forza maggiore, deve determinare un’impossibilità oggettiva di adempiere, in tutto o in parte, ad una propria obbligazione; così come l’imprevedibilità dell’evento non si deve intendere in senso assoluto, bensì in concreto cioè nel tempo e nel luogo in cui il contratto è stato sottoscritto. L’elemento dirimente è quello della ragionevole insuperabilità, nel senso che per poter invocare la forza maggiore e quindi andare esenti da responsabilità, non è sufficiente invocare il verificarsi di un evento imprevedibile o inevitabile come una pandemia, una restrizione commerciale o un embargo che impediscano, ad esempio, la consegna della merce; occorre anche dare la prova che non si è in grado di superare quell’evento e di fornire un adempimento alternativo.

Un’azienda che opera in un paese in shutdown, cioè dove siano state adottate misure di isolamento interpersonale ed altre restrizioni dovute alla pandemia, e che sia connessa ad una supply chain, cioè ad una rete di approvvigionamento, completamente interrotta potrebbe invocare la causa di forza maggiore per giustificare l’impossibilità di consegna della merce. Al contrario, una multinazionale che operi anche in paesi non soggetti a shutdown e sia in grado di movimentare beni, personale o di erogare servizi in o da questi paesi, potrebbe essere astrattamente in grado di superare l’evento benché imprevedibile ed inevitabile; in tali casi non sarebbe possibile invocare l’esimente della forza maggiore. Naturalmente la valutazione deve avvenire caso per caso.

Perché sia possibile avvalersi dell’esimente della forza maggiore, è inoltre necessario darne comunicazione alla controparte. La Convenzione di Vienna richiede che «the party who fails to perform must give notice to the other party of the impediment and its effect on his ability to perform». Ciò che deve essere comunicato, nelle forme previste dal contratto, non è tanto l’evento – il diffondersi del COVID-19 ad esempio – bensì il fatto che a seguito dell’evento si sia verificata l’impossibilità di adempiere la prestazione. Fino a quando non avviene questa comunicazione non si verifica l’esenzione dalle responsabilità per l’inadempimento o per il ritardo nell’adempimento. È importante sottolineare che la notifica va inviata «entro un tempo ragionevole», come indica la Convenzione di Vienna. Poiché è principio fondamentale che i contratti debbano essere interpretati ed eseguiti secondo buona fede, l’impossibilità, totale o parziale, di adempiere o di adempiere esattamente alla propria obbligazione va notificata senza ritardo, cioè quanto prima possibile, alla controparte, che in questo modo avrà la possibilità di procurarsi altrove la prestazione oggetto del contratto e di contenere o di evitare il danno.

Potrebbe darsi il caso che sia la controparte, decorso un determinato termine indicato nel contratto come termine «essenziale», a non avere più interesse a ricevere la prestazione, ad esempio se si tratti di prodotti legati alla stagionalità. In tal caso, se il contratto prevede un termine di consegna che scade durante il periodo nel quale si è verificato l’evento invocato come forza maggiore, alcuni ordinamenti come quello italiano prevedono che il contratto possa essere risolto. Inoltre, se è il creditore a non poter ricevere la prestazione, perché ad esempio è il suo paese a subire lo shutdown, mentre il paese del fornitore ha superato questa fase, il punto di vista si capovolge: è il creditore che potrà invocare la forza maggiore per dichiarare l’impossibilità a ricevere la consegna della merce.

Un’ultima annotazione su un punto delicato, che in questa sede è possibile soltanto sfiorare: la prestazione, come si è detto, deve essere oggettivamente impossibile, non soggettivamente impossibile; la mera difficoltà finanziaria in cui può venire a trovarsi il debitore, pertanto, non è invocabile come causa di forza maggiore, poiché è riferita ad una prestazione che ha ad oggetto una somma di denaro, bene per sua natura generico. Questa precisazione consente di introdurre un altro argomento, che apre scenari molto interessanti: quello della possibilità di invocare il rimedio che nel nostro ordinamento è descritto come «eccessiva onerosità sopravvenuta» e che nei contratti internazionali è posto a fondamento della c.d. clausola di hardship.

Se ad esempio le merci oggetto della fornitura sono bloccate in un porto a seguito delle misure di contenimento adottate nel paese di esportazione, di transito o di destinazione, con extra costi di giacenza o di logistica a carico del venditore o del compratore, dover far fronte a questi costi imprevisti può rendere eccessivamente oneroso l’adempimento del contratto di compravendita, una volta che le misure di contenimento saranno state rimosse.

In questi casi non si può invocare la forza maggiore, perché l’adempimento non è di per sé oggettivamente impossibile: è divenuto solo troppo oneroso. In sostanza, l’evento straordinario ed imprevedibile (ma non insuperabile) è tale da comportare uno squilibrio eccessivo tra il valore economico delle due prestazioni dedotte nel contratto (ad esempio con riferimento al prezzo della merce pattuito con riferimento a ben diverse circostanze al momento della stipula del contratto).

Il nostro ordinamento consente la risoluzione del contratto per «eccessiva onerosità sopravvenuta» per i contratti a prestazioni corrispettive, come la compravendita, che siano anche ad esecuzione continuata o ad esecuzione differita (art. 1467 ss. c.c.); la controparte può sempre cercare di evitare la risoluzione del contratto offrendo una equa modifica delle condizioni contrattuali. In questi casi, di fronte ad un imprevisto ed eccessivo aggravamento dei costi, è sempre opportuno concentrare tutti gli sforzi sulla rinegoziazione dei termini contrattuali, al fine di trovare soluzioni condivise. Anche perché la rinegoziazione si impone alla luce del principio di buona fede sopra ricordato, che deve sempre guidare l’interpretazione e l’esecuzione del contratto, in particolar modo nell’ambito degli scambi internazionali di merce.

Secondo la giurisprudenza, il mancato rispetto del dovere di buona fede si configura come vero e proprio inadempimento contrattuale, che può portare anche alla risoluzione del contratto. Oltre al dovere di tempestività nello scambio di informazioni, uno degli aspetti in cui può essere declinato il dovere di buona fede riguarda il dovere di ciascuna parte di contribuire lealmente a realizzare l’interesse contrattuale dell’altra, se del caso anche con l’adempimento di obblighi che non sono previsti nel contratto o dalla legge ad esso applicabile. La collaborazione reciproca per risolvere le criticità che possono manifestarsi nei casi in cui la prestazione di una parte sia divenuta eccessivamente onerosa ne è un esempio.

L’eccessiva onerosità sopravvenuta non è disciplinata dalla Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale dei beni mobili ragion per cui, se non sia stata prevista un’apposita clausola nel contratto, si dovrà vedere come (e se) essa sia disciplinata dalla legge applicabile al contratto. In mancanza di una disciplina applicabile, un riferimento è offerto dai principi elaborati in seno all’International institute for the unification of private law (UNIDROIT), della cui applicazione viene fatto largo uso anche in sede di arbitrato interazionale.

Secondo la definizione contenuta nell’art. 6.2.3. dei principi UNIDROIT per i contratti commerciali internazionali, ricorre una situazione di hardship quando si verifica un evento che altera l’equilibrio del contratto «per l’accrescimento dei costi della prestazione di una delle parti, o per la diminuzione del valore della controprestazione». L’evento, estraneo alla sfera di controllo della parte svantaggiata, deve manifestarsi successivamente alla conclusione del contratto, non poteva essere ragionevolmente previsto nel momento della conclusione del contratto e non deve essere stato assunto come rischio dalla parte svantaggiata. Quando si verifica un evento con queste caratteristiche, la parte svantaggiata ha diritto di chiedere la motivata rinegoziazione del contratto, senza per questo essere autorizzata a sospendere l’esecuzione della propria prestazione. Nel caso di mancato accordo tra le parti «entro un termine ragionevole», il modello di clausola UNIDROIT prevede la possibilità di rivolgersi al giudice che, valutate le circostanze, potrà risolvere il contratto o modificarlo al fine di ristabilire l’equilibrio economico originario. Il modello, dunque, prevede un obbligo contrattuale di rinegoziazione del contratto; circostanza che, ad esempio, non è prevista dal codice civile italiano.

La stessa impostazione del modello UNIDROIT si riscontra nel diritto tedesco, in seguito alla modifica del codice civile intervenuta nel 2002 (§ 313 BGB) e nel modello di hardship clause elaborato da ICC-International chamber of commerce di Parigi. Quest’ultimo precisa che l’evento che rende la prestazione più onerosa, di quanto la parte si sarebbe ragionevolmente potuta aspettare nel momento della conclusione del contratto, deve essere anche ragionevolmente inevitabile ed insuperabile, al pari di quanto solitamente previsto per i casi di forza maggiore. Il modello ICC indica tre possibili vie d’uscita per risolvere l’impasse, tra cui le parti possono scegliere nel momento in cui inseriscono questa clausola nel loro contratto: 1) risolvere il contratto; 2) in mancanza di accordo sulla rinegoziazione, prevedere la possibilità di rivolgersi ad un giudice o ad un arbitro che individui le modifiche necessarie per ristabilire l’equilibrio delle prestazioni o, in alternativa, dichiari la risoluzione del contratto (soluzione analoga a quella prevista dal modello UNIDROIT); 3) in mancanza di accordo sulla rinegoziazione, prevedere la possibilità di rivolgersi ad un giudice o ad un arbitro che dichiari la risoluzione del contratto senza possibilità di modificarlo.

In conclusione, particolarmente per quanto attiene agli scambi internazionali, è della massima importanza effettuare una revisione periodica degli strumenti contrattuali esistenti in azienda, per verificare se essi prevedano adeguate clausole di forza maggiore e/o di hardship per fronteggiare situazioni ragionevolmente imprevedibili al momento della conclusione del contratto, che potrebbero rendere impossibile, in tutto o in parte anche solo temporaneamente, oppure rendere eccessivamente onerosa, l’esecuzione della prestazione dedotta nel contratto. Nei contratti di fornitura è anche importante verificare se sia stato adeguatamente valutato e disciplinato il c.d. rischio approvvigionamento, cioè il fatto che l’evento possa colpire anche eventuali terzi che facciano parte della supply chain. Al di là dei tecnicismi giuridici, l’aspetto più importante per gli operatori commerciali è mantenere buoni rapporti commerciali con i propri clienti, ispirati a principi di lealtà, trasparenza e buona fede, impegnandosi fattivamente, per quanto possibile, nella rinegoziazione dei termini contrattuali. Contratti ben fatti e buone clausole sono funzionali al raggiungimento di questo scopo.

Piero Bellante

avvocato

Estratto da Anasped, Newsletter n. 4/2020 [link al sito] (5.5.2020).